Profughi in fuga: una storia come tante

Premetto che non è mia intenzione essere retorico ma solo cercare di condividere una mia esperienza intima e allo stesso tempo simbolica del dramma di tante persone che fuggono da qualche posto e vorrebbero andare in un altro dove poter solo stare meglio.
Persone che ogni giorno leggiamo e sentiamo nelle notizie. Ci sembrano lontane ma non lo sono, in nessun senso.

Oggi, 12 aprile 2016, tornavo da Bologna con due colleghi da una riunione di lavoro. Siamo saliti sul Frecciarossa per Milano e seduto a uno dei posti a noi riservati, abbiamo trovato un povero ragazzino nero di circa dodici anni, magro, con un viso buono e gli occhi quasi impauriti. Viaggiava da solo, senza bagaglio, con solo i suoi vestiti: jeans, una felpa con la cerniera e delle scarpe da ginnastica. Dormiva appoggiato sul tavolo.
Non l’abbiamo svegliato, e non nego che all’inizio abbiamo provato quasi fastidio per la sua presenza. Noi incravattati, ottusamente stanchi per la riunione di lavoro appena conclusa. Ci siamo seduti nei tre posti rimanenti della classica isola da quattro posti del Frecciarossa.

A un certo punto sono arrivati due controllori e l’hanno svegliato. Lui non ha detto nulla, nemmeno una parola. Loro neppure, a parte chiedergli il biglietto che lui non aveva.
Senza dirgli niente, hanno chiamato la Polfer, l’hanno segnalato e se ne sono andati. Lui non si è reso conto di nulla non capendo l’italiano.
Ho cercato di avvisarlo in inglese ma non mi capiva, diceva solo “francais”. Gli ho scritto in francese col traduttore ma non riusciva a leggere. Nel frattempo siamo arrivati in Stazione Centrale a Milano.
Nessuna delle persone vicine si preoccupava di quello che stava succedendo, anche se era pieno di gente che doveva scendere e mi sentiva.

Sulla stessa carrozza c’era una classe di coetanei italiani di quel ragazzino, tornavano da una gita spensierati, con i loro vestiti di marca e i cellulari.
Certo, non hanno nessuna colpa per come sono. Ma spero che un giorno capiscano che in media “uno come lui” aveva già bevuto a forza più vita di quanto loro potranno mai navigarne in tutta la loro.

Continuando il racconto, ho fermato una ragazza che passava, chiedendole se sapesse il francese. “Poco”, le ho spiegato la situazione, lei ha cercato di avvisarlo ma il treno stava ripartendo per Torino e stava salendo una marea di gente. Sono sceso, lei era ancora lì che gli parlava.
Al binario c’erano cinque poliziotti che si apprestavano a salire sulla carrozza per prenderlo. Io e i miei colleghi ce ne siamo andati molto tristi pensando a cosa sarebbe capitato di lì a poco.
Questo pensiero sconnesso lo dedico prima di tutto a lui, sperando che sia riuscito in qualche modo ad arrivare alla sua destinazione e a chi voleva raggiungere. Lo dedico a me e tutti voi che leggete, per essere più solidali con chi ha bisogno. Lo dedico a una persona speciale, che sicuramente al mio posto avrebbe fatto di più.

Pubblicato il 13.04.2016 su Farecultura Magazine

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